Sal Comodo

CEO e founder

L'idea che ancora non c'è

15 lug 2025

Ogni futuro inizia con un dubbio, si scolpisce tra incertezze e speranze, e non ha fine finché esiste qualcuno che lo immagina.

Green Fern
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Sal Comodo

CEO e founder

L'idea che ancora non c'è

15 lug 2025

Ogni futuro inizia con un dubbio, si scolpisce tra incertezze e speranze, e non ha fine finché esiste qualcuno che lo immagina.

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Per comunicare davvero non basta capire: serve immaginare. Perché le idee migliori non arrivano da ciò che sappiamo, ma da ciò che siamo disposti a sognare.

L’immaginazione non è il contrario dell’intelligenza, ma la sua estensione più audace. Dove l’intelligenza analizza, l’immaginazione esplora. Nel mondo della comunicazione, dove spesso prevalgono l’efficienza e la ripetizione, immaginare diventa un gesto necessario. È ciò che accende nuove connessioni, che trasforma il già detto in qualcosa di vivo, che rende possibile ciò che ancora non esiste. Perché ogni idea significativa nasce prima come possibilità e come visione. Ed è da lì che, ogni giorno, si può cominciare a costruire.

La scintilla prima del pensiero

Albert Einstein diceva che l’immaginazione è più importante dell’intelligenza. Non era una provocazione, ma una dichiarazione di fiducia nell’invisibile, nel possibile, nel non ancora. L’intelligenza analizza, organizza e risolve. Ma è l’immaginazione che apre strade, che anticipa il futuro e sa guardare dove gli altri non stanno ancora guardando.

Nel nostro lavoro — fatto di parole, immagini, idee, relazioni — l’immaginazione non è un lusso, ma una necessità. È il seme che precede ogni strategia. È la domanda che si fa avanti prima ancora della risposta. È la capacità di immaginare non solo un contenuto, ma l’effetto che può avere su chi lo riceve. Di prevedere non solo cosa dire, ma come farlo arrivare con autenticità e senso.

L’intelligenza da sola può essere brillante, ma spesso resta chiusa dentro i confini del già noto. L’immaginazione, invece, attraversa. Valica. Azzarda. Non perché ignora la realtà, ma perché la ascolta profondamente, e poi la supera. Non si accontenta di ciò che è efficace: cerca ciò che è significativo.

Spesso, nella comunicazione, si cade nella trappola della formula che funziona. Del formato che “performerà”. Dell’efficienza immediata. Ma se tutto si ripete, se ogni messaggio è la copia del precedente, qualcosa si spegne. L’attenzione, certo. Ma anche l’anima di quello che facciamo. Comunicare non dovrebbe mai essere solo trasmettere. Dovrebbe essere evocare. Ispirare. Connettere.

E questo accade solo quando, accanto all’intelligenza razionale, lasciamo spazio a una forma di intelligenza più silenziosa: quella immaginativa. Quella che non ha paura del bianco della pagina. Che accetta il dubbio, che gioca con l’imprevisto, che prova a vedere — come diceva Calvino — “ciò che non è, ma potrebbe essere”.

L’immaginazione, del resto, non è una fuga dalla realtà. È un ponte tra il presente e ciò che ancora non sappiamo dire, ma già sentiamo possibile. In un tempo spesso dominato dalla fretta, immaginare richiede lentezza, uno sguardo largo, la voglia di sorprendersi sempre.

Per comunicare davvero non basta capire: serve immaginare. Perché le idee migliori non arrivano da ciò che sappiamo, ma da ciò che siamo disposti a sognare.

L’immaginazione non è il contrario dell’intelligenza, ma la sua estensione più audace. Dove l’intelligenza analizza, l’immaginazione esplora. Nel mondo della comunicazione, dove spesso prevalgono l’efficienza e la ripetizione, immaginare diventa un gesto necessario. È ciò che accende nuove connessioni, che trasforma il già detto in qualcosa di vivo, che rende possibile ciò che ancora non esiste. Perché ogni idea significativa nasce prima come possibilità e come visione. Ed è da lì che, ogni giorno, si può cominciare a costruire.

La scintilla prima del pensiero

Albert Einstein diceva che l’immaginazione è più importante dell’intelligenza. Non era una provocazione, ma una dichiarazione di fiducia nell’invisibile, nel possibile, nel non ancora. L’intelligenza analizza, organizza e risolve. Ma è l’immaginazione che apre strade, che anticipa il futuro e sa guardare dove gli altri non stanno ancora guardando.

Nel nostro lavoro — fatto di parole, immagini, idee, relazioni — l’immaginazione non è un lusso, ma una necessità. È il seme che precede ogni strategia. È la domanda che si fa avanti prima ancora della risposta. È la capacità di immaginare non solo un contenuto, ma l’effetto che può avere su chi lo riceve. Di prevedere non solo cosa dire, ma come farlo arrivare con autenticità e senso.

L’intelligenza da sola può essere brillante, ma spesso resta chiusa dentro i confini del già noto. L’immaginazione, invece, attraversa. Valica. Azzarda. Non perché ignora la realtà, ma perché la ascolta profondamente, e poi la supera. Non si accontenta di ciò che è efficace: cerca ciò che è significativo.

Spesso, nella comunicazione, si cade nella trappola della formula che funziona. Del formato che “performerà”. Dell’efficienza immediata. Ma se tutto si ripete, se ogni messaggio è la copia del precedente, qualcosa si spegne. L’attenzione, certo. Ma anche l’anima di quello che facciamo. Comunicare non dovrebbe mai essere solo trasmettere. Dovrebbe essere evocare. Ispirare. Connettere.

E questo accade solo quando, accanto all’intelligenza razionale, lasciamo spazio a una forma di intelligenza più silenziosa: quella immaginativa. Quella che non ha paura del bianco della pagina. Che accetta il dubbio, che gioca con l’imprevisto, che prova a vedere — come diceva Calvino — “ciò che non è, ma potrebbe essere”.

L’immaginazione, del resto, non è una fuga dalla realtà. È un ponte tra il presente e ciò che ancora non sappiamo dire, ma già sentiamo possibile. In un tempo spesso dominato dalla fretta, immaginare richiede lentezza, uno sguardo largo, la voglia di sorprendersi sempre.

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